Cuma

Cuma

“Il pio Enea raggiunge le vette, a cui presiede/ l'alto Apollo, e vicino i recessi, antro immane, / dell'orrenda Sibilla, alla quale il vate di Delo /ispira grandi animo e mente e apre il futuro.”
(Aen. VI, 9-12)

LA SCOPERTA

I primi resoconti di scoperte archeologiche a Cuma risalgono all’inizio del XVII secolo, ma solo dalla metà dell’Ottocento si avviarono gli scavi, voluti dal principe Leopoldo di Siracusa, fratello del re Ferdinando II. Dopo l’unità d’Italia l’archeologo Enrico Stevens indagò i sepolcreti, mentre i Savoia promossero scavi sull’Acropoli. Seguirono poi le ricerche alla terrazza inferiore e nella città bassa, ricerche rese possibili dalla lungimirante espropriazione da parte dello Stato dei terreni di interesse archeologico. A partire dagli anni Novanta del Novecento la città è stata oggetto di un programma di indagini sistematiche sia da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che ha invitato a partecipare alla ricerca Università e istituzioni archeologiche anche straniere di Napoli, nell’area dell’Anfiteatro, delle mura, del Foro e dei suoi edifici pubblici, della città bassa e della necropoli romana lungo la Via Domiziana verso Licola.

LA STORIA E I MONUMENTI

I primi insediamenti indigeni di Cuma sono sull’acropoli e risalgono alla fine del IX-prima metà dell’VIII sec. a.C. La città fu la più antica colonia greca d’Occidente, fondata da gruppi provenienti dalle città di Calcide ed Eretria, i quali  si erano stanziati anche nell’isola di Ischia (Pithekoussai il nome greco): come dimostrano le prime tombe greche, la colonizzazione deve essere avvenuta nella seconda metà dell’VIII sec. a.C., in accordo con la data tradizionale della fondazione tramandata dalle fonti letterarie antiche (730 a.C.)
Fin dall’inizio fu occupata la piana dove poi, dal IV sec. a.C., si svilupperà la città bassa, affacciata sul lago di Licola. A dominio della piana si erge la rupe dell’acropoli, che permetteva il controllo di un vasto tratto di costa, da Miseno al Circeo.

Cuma, panorama dall’acropoli
La storia di Cuma è nota soprattutto da due eruditi greci vissuti in età romana, tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C.: Dionigi di Alicarnasso e Plutarco di Cheronea, che ne raccontano le vicende di un breve arco di tempo, compreso fra la fine del VI e l’inizio del V sec. a.C. Nel 524 la città viene assaltata da una coalizione di Etruschi, Umbri e Dauni e si salva grazie alla strenua difesa della cavalleria, guidata dal giovane Aristodemo, che diventerà una figura chiave della storia dell’Italia centrale in questo periodo. Circa venti anni più tardi, quando a Roma viene cacciato l’ultimo re, Tarquinio il Superbo, e la città è attaccata dagli Etruschi, Aristodemo guida l’esercito cumano inviato in aiuto di Roma, e ad Aricia sconfigge l’esercito etrusco (504 a.C.). Tornato in patria si proclama tiranno di Cuma e riesce a conquistare un ampio consenso popolare grazie ad una vasta politica di opere pubbliche: il potenziamento delle mura, l’irreggimentazione delle acque con una rete di canali e fognature, l’ampliamento del santuario di Apollo. Verso la fine del V sec. a.C. i Campani, in precedenza sottomessi dai greci e relegati a vivere nelle campagne, compiono la loro ascesa sociale si costituiscono come popolo, prendendo il sopravvento nell’etrusca Capua e nella greca Cuma . Con l’arrivo di Roma nell’area campana Capua e Cuma si schierano dalla sua parte contro i Sanniti e ne diventeranno uno dei capisaldi di controllo del territorio. Così già nel 338 a.C. Roma concede ad ambedue le città la cittadinanza senza diritto di voto.
Il circuito difensivo della città, risalente ad epoca arcaica, mostra una serie di rifacimenti che arrivano fino all’epoca tardoantica, con significativi episodi di modifica in età sillana. Entrando da Porta Mediana, attraversato il quartiere abitativo, si trovano le terme di età alto imperiale e quindi il foro. La grande piazza è dominata dalla mole del Capitolium, il tempio maggiore, la cui veste architettonica definitiva fu ultimata sotto Domiziano, riutilizzando il podio di un grande tempio sannitico, databile in pieno IV secolo a.C. La piazza forense era circondata da taberne e ninfei a da portici su due livelli, costruiti nel III secolo a.C. e rifatti in età sillana. Sul lato meridionale si aprivano due piazzette distinte, ciascuna dominata da un edificio sacro: il tempio sul quale fu poi costruita la masseria del Gigante, verosimilmente consacrato al culto imperiale, e un secondo tempio di età augustea o giulio-claudia, sorto sul sito di un santuario arcaico. Dal foro parte una strada lastricata in basalto che attraversa il monte di Cuma grazie alla cosiddetta Crypta Romana, una galleria scavata nel tufo che consentiva il rapido collegamento tra l’area della città bassa, e quindi la via per Roma, e la zona ai piedi dell’acropoli da cui si raggiungevano agevolmente la rocca e il mare.
Cuma resti
Cuma
crypta romana
La Crypta Romana
La crypta congiunge una serie di cavità realizzate già in epoca greca – cisterne arcaiche, un sistema di cave etc. – e fa parte di una rete di percorsi realizzata dalle truppe di Agrippa su progetto dell’architetto L. Cocceio Aucto, braccio destro e comandante della flotta di Ottaviano durante le guerre civili. Il monumento più famoso di Cuma è il cosiddetto antro della Sibilla: un lungo corridoio scavato nella roccia probabilmente già nel IV secolo a.C., e successivamente approfondito in età romana, sul cui percorso si allargano cisterne e che termina con una “misteriosa” stanza ipogea che fu identificata con il luogo in cui la profetessa dava i suoi responsi. La critica moderna ha invece riconosciuto nel complesso ipogeo una galleria militare che metteva in rapida – e protetta – connessione due zone della rocca.
Il cosiddetto “Antro della Sibilla”

Approfondimenti

Informazioni aggiuntive

La città è strettamente legata al racconto del mitico viaggio di Enea, cantato da Virgilio nell’Eneide, come punto di arrivo dell’eroe troiano sulle coste laziali.
Secondo la tradizione ripresa da Virgilio, infatti, appena sbarcato Enea fece il primo sacrificio, in un luogo presso il fiume Numico (oggi Fosso di Pratica: Numico_1), dove poi sarebbe sorto un santuario dedicato a Sol Indiges. Inseguendo una scrofa bianca gravida, l’eroe percorse una distanza di 24 stadi: qui la scrofa partorì trenta piccoli e il prodigio offrì ad Enea un segno della volontà degli dei di fermarsi e fondare una nuova città. L’eroe incontrò Latino, il re della locale popolazione degli Aborigeni, il quale, dopo aver consultato un oracolo, capì che i nuovi arrivati non dovevano essere considerati degli invasori, ma come uomini amici da accogliere. Enea sposò dunque la figlia di Latino, Lavinia, e fondò la città di Lavinium, celebrando la nascita di un nuovo popolo, nato dalla fusione tra Troiani e Aborigeni: il popolo dei Latini. Il mito racconta che Enea non morì, ma scomparve in modo prodigioso tra le acque del fiume Numico e da questo evento fu onorato come Padre Indiges: Il padre capostipite.

La piazza pubblica della città aveva una pianta rettangolare, ornata sui lati lunghi da portici, su cui si aprivano diversi edifici: uno di questi aveva forse la funzione di “Augusteo”, luogo dedicato al culto imperiale, come sembra indicare il ritrovamento di splendidi ritratti degli imperatori Augusto, Tiberio e Claudio. Sul lato corto occidentale si affacciavano un edificio elevato su un podio, forse la Curia (luogo di riunione del governo locale), e un tempio, risalente ad età repubblicana.

Il santuario, situato ad est della città antica, era dedicato alla dea Minerva, che a Lavinium è dea guerriera, ma anche protettrice dei matrimoni e delle nascite. È stato trovato un enorme scarico di materiale votivo databile tra la fine del VII e gli inizi del III sec. a.C., costituito soprattutto da numerose statue in terracotta raffiguranti soprattutto offerenti, sia maschili che femminili, alcune a grandezza naturale, che donano alla divinità melograni, conigli, colombe, uova e soprattutto giocattoli: le offerte simboleggiano l’abbandono della fanciullezza e il passaggio all’età adulta attraverso il matrimonio


Eccezionale il ritrovamento di una statua della dea, armata di spada, elmo e scudo e affiancata da un Tritone, essere metà umano e metà pesce: questo elemento permettere di riconoscere nella raffigurazione la Minerva Tritonia venerata anche in Grecia, in Beozia, e ricordata da Viirgilio nell’Eneide (XI, 483): “armipotens, praeses belli, Tritonia virgo” (O dea della guerra, potente nelle armi, o vergine tritonia…)

Il culto del santuario meridionale nasce in età arcaica ed era caratterizzato da libagioni. Nella fase finale il culto si trasforma invece verso la richiesta di salute e guarigione, documentato dalle numerose offerte di ex voto anatomici. Sono state trovate iscrizioni di dedica che ricordano
Castore e Polluce (i Dioscuri) e la dea Cerere. La molteplicità degli altari e delle dediche è stata interpretata come testimonianza del carattere federale del culto, quindi legato al popolo latino nel suo insieme: ogni altare potrebbe forse rappresentare una delle città latine aderenti alla Lega Latina, confederazione che riuniva molte città del Latium Vetus, alleatesi per contrastare il predominio di Roma.

Dionigi di Alicarnasso, vissuto sotto il principato di Augusto, afferma di aver visto in questo luogo, ancora al suo tempo, nel I sec. a.C., due altari, il tempio dove erano stati posti gli dèi Penati portati da Troia e la tomba di Enea circondata da alberi: «Si tratta di un piccolo tumulo, intorno al quale sono stati posti file regolari di alberi, che vale la pena di vedere» (Ant. Rom. I, 64, 5)
Alba

Lavinium fu considerata anche il luogo delle origini del popolo romano: all’immagine di Roma nel momento della sua espansione e della crescita del suo potere era utile costruire una discendenza mitica da Enea, figlio di Venere, onorato per le sue virtù, per la capacità di assecondare gli dèi; di conseguenza si affermò anche la tradizione per la quale Romolo, il fondatore di Roma, aveva le sue origini, dopo quattro secoli, dalla medesima stirpe di Enea.
Secondo questa tradizione Ascanio Iulo, il figlio di Enea, aveva fondato Alba Longa, città posta presso l’attuale Albano, dando l’avvio a una dinastia, che serviva per colmare i quattrocento anni che separano le vicende di Enea (XII sec. a.C.) dalla fondazione di Roma (VIII se. a.C.), quando, dalla stessa stirpe, nacquero i gemelli Romolo e Remo, secondo la tradizione allattati da una lupa. Questi erano dunque i nipoti del re di Alba Longa. La madre era Rea Silvia e il padre il dio Marte. Romolo uccise Remo e poi fondò Roma nel 753 a.C. Lavinium diventava così la città sacra dei Romani, dove avevano sede i “sacri princìpi del popolo romano”.

Il Borgo sorge su una altura occupata nell’antichità dall’acropoli di Lavinium. In età imperiale vi sorge una domus, testimoniata da pavimenti in mosaico in bianco e nero (Borgo_1). Una civitas Pratica è ricordata per la prima volta in un documento del 1061, mentre nell’epoca successiva si parla di un castrum che fu di proprietà del Monastero di San Paolo fino al 1442. La Tenuta di Pratica di Mare, comprendente anche il Borgo, allora definito “Castello” (Borgo_2), divenne poi proprietà della famiglia Massimi e in seguito fu acquistata nel 1617 dai Borghese. Il principe Giovan Battista, nel tentativo di valorizzare il territorio con l’agricoltura, ristrutturò il villaggio nella forma che ancora oggi rimane, caratteristica per la sua pianta ortogonale e la sua unitarietà. Dalla metà dell’Ottocento la malaria, che devastava la campagna romana, causò lo spopolamento del borgo, finché Camillo Borghese dal 1880 si impegnò nell’opera di ricolonizzazione, restaurando il palazzo e intervenendo con una importante opera di riassetto della tenuta, dove fu impiantata una singolare vigna a pianta esagonale. Il Borgo e la tenuta rappresentano una preziosa area monumentale e agricola ancora intatta all’interno della zona degradata di Pomezia e Torvaianica.

L’acropoli si articola in due terrazze. Su quella inferiore furono costruiti due templi: il più grande ospitava il culto di Giove, lo Zeus greco e Juppiter Flagius dei Sanniti; il tempio più piccolo, di età tardo repubblicana, era dedicato ad Asclepio. Sulla terrazza superiore si trova un grande tempio, più tardi trasformato in chiesa cristiana, che veniva tradizionalmente attribuito a Zeus, ma in cui recentissime indagini riconoscono invece il tempio di Apollo, la divinità poliade di Cuma. Queste ricerche hanno portato alla scoperta di due bronzetti che rappresentano rispettivamente un guerriero ed un personaggio femminile nudo che suona la lira – identificabile con la Sibilla stessa – e che consentono di ricondurre la fondazione del santuario ai primi coloni, arrivati poco dopo la metà dell’VIII secolo a.C.
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Il tempio di Apollo sull’acropoli
Bronzetti raffiguranti un guerriero elmato e una figura femminile che suona la lira.
Il tempio mostra resti di quasi tutte le complesse fasi di vita dell’edificio: le fondazioni di fine VII secolo a.C., i grandi blocchi di fondazione di età sannitica, i pilastri in laterizio della prima età imperiale, il battistero paleocristiano; infine le tombe medievali che occupavano le cinque navate della basilica di San Massimo, protettore di Cuma, abbandonata nel 1207, quando la città fu sgomberata dopo l’attacco dei napoletani.
Il battistero paleocristiano nel tempio di Apollo

Per saperne di più

F. Zevi (a cura di), Museo Archeologico dei Campi Flegrei. Catalogo generale. Cuma, Napoli 2008
C. Rescigno, “I templi della rocca e l’architettura sacra a Cuma tra età ellenistica e romana”, in M. Valenti (a cura di), Architettura del sacro in età romana: paesaggi, modelli, forme e comunicazione, Roma 2016, pp. 113-125
T. E. Cinquantaquattro, C. Rescigno, « Una suonatrice di lira e un guerriero. Due bronzetti dagli scavi sull’acropoli di Cuma », Mélanges de l’École française de Rome – Antiquité [En ligne], 129-1 | 2017, mis en ligne le 26 septembre 2017, consulté le 16 juin 2020. URL : http://journals.openedition.org/mefra/4214 ; DOI : https://doi.org/10.4000/mefra.4214

IN BREVE

Enea arriva a Cuma per interrogare la Sibilla. La profetessa, pervasa dal dio Apollo, può predire il futuro e lo informa delle vicissitudini che dovrà affrontare, gli fa intravedere la futura grandezza di Roma e lo guida nell’Ade. Le porte dell’oltretomba si spalancano presso il lago d’Averno, dove Enea scende per rivedere il padre Anchise. All’episodio è consacrato l’intero libro VI dell’Eneide e numerosi sono gli accenni ai luoghi sacri della città di Cuma: il tempio di Apollo, il più alto dell’acropoli, costruito nientemeno che da Dedalo in fuga da Creta, circondato dal bosco sacro ad Artemide; l’antro della Sibilla, le porte dell’Ade.

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