Palinuro e il Cilento

palinuro e il cilento

PALINURO E IL CILENTO

Il mito di Palinuro, fedele timoniere di Enea, lega in un connubio indissolubile la Rotta di Enea a uno dei territori più emblematici dei valori del nuovo itinerario culturale: il Cilento.
Nello specchio di mare antistante il Comune di Centola Palinuro, Palinuro, vinto dal sonno, cade in mare.
L’episodio è narrato nel Libro V dell’Eneide. Virgilio descrive il punto preciso di quell’evento, temuto da sempre da tutti i marinai: la caduta in mare nella notte.
I compagni non si accorgono della caduta, che avviene nei pressi di uno scoglio precisamente identificato da Virgilio, nel tratto di costa tra il golfo di Policastro e l’insenatura di Pisciotta. Siamo in pieno Cilento, davanti al promontorio che proprio al timoniere di Enea deve il suo nome: capo Palinuro.

La costa del Cilento dal Capo Palinuro
Palinuro rimane per tre giorni in balia del mare. Giunto sulla spiaggia non trova la salvezza: scambiato per un mostro marino viene ucciso e il suo corpo abbandonato in mare. Palinuro fu così vittima sacrificale di Nettuno, che in cambio del suo aiuto aveva preteso una vittima:
“Una sola vittima per la salvezza di molti”
(Eneide, V, 815)

Enea incontra l’ombra di Palinuro nell’Ade, durante la discesa agli inferi presso Cuma, e lì lo sfortunato timoniere gli chiederà di essere finalmente sepolto.

“Strappami, invitto, a questi mali; o coprimi di terra, perché lo puoi, e cerca il porto di Velia”
(Eneide, VI, 365)
La Sibilla rivelerà che il corpo di Palinuro non verrà mai ritrovato, ma che le genti che lo hanno ucciso spinte dalla paura, pentite erigeranno un cenotafio in sua memoria e lo onoreranno con offerte.
Il cenotafio in memoria di Palinuro

Una costa ricca di testimonianze archeologiche

Se la memoria di Palinuro si lega principalmente al mito e al cenotafio che ne ricorda le sventure, la costa del Cilento raccoglie testimonianze di importanza straordinaria, tra le quali spiccano le colonie greche di Elea e Paestum, entrambe parte del Parco Archeologico di Paestum & Velia (www.museopaestum.beniculturali.it) Il Parco archeologico di Elea-Velia si trova nel comune di Ascea Marina. Dell’antica città restano l’Area Portuale, Porta Marina, Porta Rosa, le Terme Ellenistiche e le Terme romane, l’Agorà, l’Acropoli, il Quartiere Meridionale e il Quartiere Arcaico. Elea fu luogo di riferimento della scuola filosofica detta Eleatica, che ebbe in Parmenide il suo principale esponente. La città di Posidonia, successivamente rinominata dai Romani Paestum, si trova nella Piana del Sele, vicino al litorale, nel golfo di Salerno, a nord del Parco nazionale del Cilento, in una frazione del comune di Capaccio Paestum. Degli oltre 120 ettari racchiusi dalle antiche mura, sono di proprietà statale e visitabili 25 ettari, che comprendono: i tre templi di ordine dorico edificati nelle due aree santuariali urbane di Paestum, dedicate rispettivamente ad Hera e ad Athena; l’agorà greca e il foro romano con i templi e le tabernae; la basilica e il macellum; l’ekklesiasterion greco e il comitium romano. Il Museo Nazionale Archeologico di Paestum raccoglie un’importante collezione di reperti, tra i quali ii corredi funebri provenienti dalle necropoli greche e lucane. Innumerevoli sono i vasi, le armi e le lastre tombali affrescate. Le più celebri provengono dalla cosiddetta Tomba del Tuffatore (480-470 a.C.), esempio unico di pittura greca di età classica, con una raffigurazione simbolica interpretata come la transizione dalla vita al regno dei morti.

Il Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano nella rete MAB (Man and Biosphere) dell’UNESCO

Il Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano è il secondo parco in Italia per dimensioni. Si estende dalla costa tirrenica fino ai piedi dell’appennino campano-lucano per un totale di 1.810 km².
Il Comitato Consultivo sulle Riserve della Biosfera del Programma MAB (Man and Biosphere) dell’UNESCO, nella riunione tenutasi a Parigi tra il 9 ed il 10 giugno del 1997, ha inserito all’unanimità nella prestigiosa rete delle Riserve della Biosfera il Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano.
Simbolo del Parco è la Primula Palinuri. A differenza delle altre primule, che vivono in regioni montuose e prediligono zone umide, la Primula palinuri vive nelle fessure delle pareti rocciose, spesso a picco sul mare, lungo la costa che va da Capo Palinuro a Scario; alcune stazioni di questa primula si trovano anche a Marina di Maratea (Basilicata), e nella parte nord della Calabria. In un remoto passato geologico questo fiore era ampiamente diffuso, ma dopo una glaciazione è quasi completamente scomparso, riuscendo a sopravvivere e ad adattarsi più a sud. I suoi fiori gialli sbocciano già a fine inverno: la fioritura così precoce la rende una delle poche specie a disposizione dei primi insetti impollinatori

La Primula Palinuri
Nell’area del Parco vanno segnalate anche due Aree Marine Protette: Santa Maria di Castellabate e Costa degli Infreschi. Anche l’Isola di Licosa, dove svetta il faro e il rudere della casa del guardiano del faro, è area naturale protetta (è un Sito di Importanza Comunitaria). Nelle sue acque sono visibili i resti sommersi dell’omonima città greco-romana, con una villa romana dotata di una vasca per l’allevamento delle murene (risalente ad un periodo che va dal I secolo a.C. al I secolo d.C.). Il nome di Licosa deriverebbe dalla sirena Leucosia, che, secondo Licofrone, Strabone e Plinio il Vecchio, qui abitò e qui fu sepolta dopo che si gettò in mare. L’Area Marina Protetta Costa degli Infreschi e della Masseta va dalla Torre dello Zancale, di Marina di Camerota, a Scario nel Golfo di Policastro: dal 2009 Area Marina Protetta della Campania. Nei suoi 13,8 km di costa si concentrano insenature, grotte, spiagge, rade, sorgenti d’acqua sottomarine: Grotta Azzurra, Grotta del Noglio, Cala Bianca, Grotta degli Infreschi, la Piscina degli Iscolelli, la Sorgente di Santa Caterina, la Cappella di San Lazzaro, le spiaggette della Masseta, l’orto botanico naturale del Marcellino, offrono scorci di paesaggi naturali di straordinaria bellezza.
La Baia degli Infreschi

La dieta mediterranea patrimonio immateriale UNESCO nasce in Cilento

La dieta mediterranea comprende una serie di competenze, conoscenze, rituali, simboli e tradizioni concernenti la coltivazione, la raccolta, la pesca, l’allevamento, la conservazione, la cucina e soprattutto la condivisione e il consumo di cibo. Mangiare insieme è la base dell’identità culturale e della continuità delle comunità nel bacino Mediterraneo. La dieta mediterranea enfatizza i valori dell’ospitalità, del vicinato, del dialogo interculturale e della creatività e rappresenta un modo di vivere guidato dal rispetto della diversità. Essa svolge un ruolo vitale in spazi culturali, festival e celebrazioni riunendo persone di tutte le età e classi sociali; include l’artigianato e la produzione di contenitori per il trasporto, la conservazione e il consumo di cibo, compresi piatti di ceramica e vetro. Le donne giocano un ruolo fondamentale nella trasmissione delle conoscenze della dieta mediterranea. Nel 1944, il noto fisiologo americano Ancel Keys, affascinato dalle abitudini alimentari della popolazione del Cilento, decise di approfondire i suoi studi trasferendosi in un piccolo paese chiamato Pollica al fine di individuare eventuali rapporti tra l’alimentazione meridionale e le malattie moderne. Il lavoro di Keys permise di rilevare che la bassa incidenza di malattie cardiovascolari era dovuta alle abitudini alimentari adottate da queste popolazioni. La dieta, intesa come stile di vita, si basava sul consumo di amidi (pane e pasta), cibi vegetali (frutta, cereali, ortaggi di stagione, legumi), olio di oliva e qualche variazione con pesce e carne. Nel 2010 l’UNESCO ha iscritto la Dieta mediterranea nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità, su proposta di Italia, Spagna, Grecia e Marocco, definendola “un insieme di competenze, conoscenze, riti, simboli e tradizioni, che vanno dal paesaggio alla tavola”.

Le piante, il cibo: il Cilento territorio per eccellenza dell’Etnobotanica

Il Parco del Cilento è ricchissimo di piante, è un vero e proprio hotspot di biodiversità: nel suo territorio, infatti, sono state catalogate più di 2000 di specie vegetali. Il Cilento è ricco anche di interessanti usi tradizionali delle risorse vegetali da parte delle comunità locali, testimonianza di un forte e consolidato legame tra l’uomo e l’ambiente; anche per questo aspetto il Parco del Cilento è stato inserito dall’UNESCO fra le “Riserve della Biosfera” nel Programma “Uomo e Natura” (Man and Biosphere – MAB), che raggruppa siti che dimostrano che può esistere una relazione equilibrata tra le comunità umane e gli ecosistemi. L’uso tradizionale delle piante da parte dell’uomo è ciò che viene indagato dall’etnobotanica, una vera e propria scienza a confine tra botanica ed antropologia culturale che studia proprio come le diverse comunità umane hanno saputo trovare nelle piante – soprattutto quelle spontanee – possibilità di utilizzazione in tutti gli ambiti della vita quotidiana: nell’alimentazione, nella medicina, in veterinaria, nelle produzioni artigianali di cesti, contenitori, mobili ed altri oggetti per la casa, nella manifattura di tessuti, tinture e cosmetici, nelle manifestazioni religiose e rituali ed in numerosissime altre attività. Tale legame ha una storia antichissima e ha rappresentato per secoli una fonte di conoscenza fondamentale per la sopravvivenza dell’uomo.
Cesto in canna e vimini di salice
Fichi al sole su graticciati di canna
Myrtus communis – Mirto
Sistema tradizionale per trasportare le more
Oltre all’interesse scientifico e culturale, i risultati della ricerca etnobotanica possono essere oggetto di un vero e proprio programma di recupero e valorizzazione attraverso la riscoperta delle produzioni e degli usi tradizionali delle piante spontanee di un determinato territorio; si pensi ai piatti tradizionali a base di erbe spontanee, anch’essi caratteristici della Dieta Mediterranea, che spesso sono tipici se non addirittura identitari per ogni singolo territorio e paesaggio.
Borago officinalis: fioritura
Frittelle a base di foglie
Le acquisizioni dell’etnobotanica sono preziose sia in ambito medico e terapeutico, con l’impiego tradizionale alla luce delle attuali conoscenze fitochimiche e farmacologiche (e quindi come input per l’individuazione di importanti principi attivi), sia in campo agronomico, in quanto alcune specie possono costituire una valida risorsa economica alternativa o integrativa rispetto alle specie e alle varietà attualmente coltivate.

Approfondimenti

Informazioni aggiuntive

La città è strettamente legata al racconto del mitico viaggio di Enea, cantato da Virgilio nell’Eneide, come punto di arrivo dell’eroe troiano sulle coste laziali.
Secondo la tradizione ripresa da Virgilio, infatti, appena sbarcato Enea fece il primo sacrificio, in un luogo presso il fiume Numico (oggi Fosso di Pratica: Numico_1), dove poi sarebbe sorto un santuario dedicato a Sol Indiges. Inseguendo una scrofa bianca gravida, l’eroe percorse una distanza di 24 stadi: qui la scrofa partorì trenta piccoli e il prodigio offrì ad Enea un segno della volontà degli dei di fermarsi e fondare una nuova città. L’eroe incontrò Latino, il re della locale popolazione degli Aborigeni, il quale, dopo aver consultato un oracolo, capì che i nuovi arrivati non dovevano essere considerati degli invasori, ma come uomini amici da accogliere. Enea sposò dunque la figlia di Latino, Lavinia, e fondò la città di Lavinium, celebrando la nascita di un nuovo popolo, nato dalla fusione tra Troiani e Aborigeni: il popolo dei Latini. Il mito racconta che Enea non morì, ma scomparve in modo prodigioso tra le acque del fiume Numico e da questo evento fu onorato come Padre Indiges: Il padre capostipite.

La piazza pubblica della città aveva una pianta rettangolare, ornata sui lati lunghi da portici, su cui si aprivano diversi edifici: uno di questi aveva forse la funzione di “Augusteo”, luogo dedicato al culto imperiale, come sembra indicare il ritrovamento di splendidi ritratti degli imperatori Augusto, Tiberio e Claudio. Sul lato corto occidentale si affacciavano un edificio elevato su un podio, forse la Curia (luogo di riunione del governo locale), e un tempio, risalente ad età repubblicana.

Il santuario, situato ad est della città antica, era dedicato alla dea Minerva, che a Lavinium è dea guerriera, ma anche protettrice dei matrimoni e delle nascite. È stato trovato un enorme scarico di materiale votivo databile tra la fine del VII e gli inizi del III sec. a.C., costituito soprattutto da numerose statue in terracotta raffiguranti soprattutto offerenti, sia maschili che femminili, alcune a grandezza naturale, che donano alla divinità melograni, conigli, colombe, uova e soprattutto giocattoli: le offerte simboleggiano l’abbandono della fanciullezza e il passaggio all’età adulta attraverso il matrimonio


Eccezionale il ritrovamento di una statua della dea, armata di spada, elmo e scudo e affiancata da un Tritone, essere metà umano e metà pesce: questo elemento permettere di riconoscere nella raffigurazione la Minerva Tritonia venerata anche in Grecia, in Beozia, e ricordata da Viirgilio nell’Eneide (XI, 483): “armipotens, praeses belli, Tritonia virgo” (O dea della guerra, potente nelle armi, o vergine tritonia…)

Il culto del santuario meridionale nasce in età arcaica ed era caratterizzato da libagioni. Nella fase finale il culto si trasforma invece verso la richiesta di salute e guarigione, documentato dalle numerose offerte di ex voto anatomici. Sono state trovate iscrizioni di dedica che ricordano
Castore e Polluce (i Dioscuri) e la dea Cerere. La molteplicità degli altari e delle dediche è stata interpretata come testimonianza del carattere federale del culto, quindi legato al popolo latino nel suo insieme: ogni altare potrebbe forse rappresentare una delle città latine aderenti alla Lega Latina, confederazione che riuniva molte città del Latium Vetus, alleatesi per contrastare il predominio di Roma.

Dionigi di Alicarnasso, vissuto sotto il principato di Augusto, afferma di aver visto in questo luogo, ancora al suo tempo, nel I sec. a.C., due altari, il tempio dove erano stati posti gli dèi Penati portati da Troia e la tomba di Enea circondata da alberi: «Si tratta di un piccolo tumulo, intorno al quale sono stati posti file regolari di alberi, che vale la pena di vedere» (Ant. Rom. I, 64, 5)
Alba

Lavinium fu considerata anche il luogo delle origini del popolo romano: all’immagine di Roma nel momento della sua espansione e della crescita del suo potere era utile costruire una discendenza mitica da Enea, figlio di Venere, onorato per le sue virtù, per la capacità di assecondare gli dèi; di conseguenza si affermò anche la tradizione per la quale Romolo, il fondatore di Roma, aveva le sue origini, dopo quattro secoli, dalla medesima stirpe di Enea.
Secondo questa tradizione Ascanio Iulo, il figlio di Enea, aveva fondato Alba Longa, città posta presso l’attuale Albano, dando l’avvio a una dinastia, che serviva per colmare i quattrocento anni che separano le vicende di Enea (XII sec. a.C.) dalla fondazione di Roma (VIII se. a.C.), quando, dalla stessa stirpe, nacquero i gemelli Romolo e Remo, secondo la tradizione allattati da una lupa. Questi erano dunque i nipoti del re di Alba Longa. La madre era Rea Silvia e il padre il dio Marte. Romolo uccise Remo e poi fondò Roma nel 753 a.C. Lavinium diventava così la città sacra dei Romani, dove avevano sede i “sacri princìpi del popolo romano”.

Il Borgo sorge su una altura occupata nell’antichità dall’acropoli di Lavinium. In età imperiale vi sorge una domus, testimoniata da pavimenti in mosaico in bianco e nero (Borgo_1). Una civitas Pratica è ricordata per la prima volta in un documento del 1061, mentre nell’epoca successiva si parla di un castrum che fu di proprietà del Monastero di San Paolo fino al 1442. La Tenuta di Pratica di Mare, comprendente anche il Borgo, allora definito “Castello” (Borgo_2), divenne poi proprietà della famiglia Massimi e in seguito fu acquistata nel 1617 dai Borghese. Il principe Giovan Battista, nel tentativo di valorizzare il territorio con l’agricoltura, ristrutturò il villaggio nella forma che ancora oggi rimane, caratteristica per la sua pianta ortogonale e la sua unitarietà. Dalla metà dell’Ottocento la malaria, che devastava la campagna romana, causò lo spopolamento del borgo, finché Camillo Borghese dal 1880 si impegnò nell’opera di ricolonizzazione, restaurando il palazzo e intervenendo con una importante opera di riassetto della tenuta, dove fu impiantata una singolare vigna a pianta esagonale. Il Borgo e la tenuta rappresentano una preziosa area monumentale e agricola ancora intatta all’interno della zona degradata di Pomezia e Torvaianica.

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Il mito di Palinuro, fedele timoniere di Enea, lega in un connubio indissolubile la Rotta di Enea a uno dei territori più emblematici dei valori del nuovo itinerario culturale: il Cilento. Nello specchio di mare antistante il Comune di Centola Palinuro, Palinuro, vinto dal sonno, cade in mare.

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