Castro

Castro

“Crescono le brezze sperate, e già il porto si apre / ormai vicino, e sulla rocca appare il tempio di Minerva. / I compagni raccolgono le vele e volgono a riva le prue. / Il porto è curvato ad arco dal flutto orientale; / le rocce protese spumeggiano di spruzzi salmastri, / ma esso è al riparo: turriti scogli abbassano / le braccia in duplice muro, e il tempio si addentra dalla riva.”
(Eneide, III, 530-536)

la scoperta

Molti sono i luoghi della costa pugliese nei quali si è voluto riconoscere in passato il primo approdo di Enea in Italia. L’identificazione del sito di Castro con Castrum Minervae, prima noto soltanto dalle testimonianze letterarie, è ora certa, grazie alle ricerche dell’Università del Salento, dirette da Francesco D’Andria e sostenute dall’Amministrazione Comunale; avviate a partire dal 2000, hanno portato alla scoperta del celebre santuario di Atena sul Capo iapigio, chiarendone il complesso e prolungato sviluppo cronologico.

Il santuario di Minerva in corso di scavo

Il territorio di Castro ha restituito importanti testimonianze di vita fin dalla preistoria più antica, risalenti al Paleolitico, nelle grotte dette Romanelli e Zinzulusa. All’età del Bronzo risale invece l’abitato scoperto in località Palombara, situato su un pianoro costiero ai piedi di Castro.
Oltre che da Virgilio nell’Eneide, la città di Castrum Minervae è citata dall’erudito Varrone (apud Ps. Prob. Ad Verg. Ecl.VI 32), che ne ricorda la fondazione ad opera di Idomeneo, re di Creta, reduce dalla guerra di Troia combattuta a fianco dei greci.
Le ricerche archeologiche si sono concentrate in un’area del centro storico miracolosamente scampata alle costruzioni moderne, all’interno del bastione angolare delle fortificazioni spagnole. Qui sono venute in luce le testimonianze del più antico insediamento iapigio sulla rocca, risalente all’età del Ferro (VIII sec. a.C.), quando esiste già un luogo di culto. Inoltre, sono state scoperte le mura del centro messapico di età ellenistica (IV sec. a.C.), sulle quali in seguito si impostarono prima quelle medievali, poi quelle di età spagnola della seconda metà del Cinquecento.

Le mura messapiche
Il Castello Aragonese

Il primo impianto difensivo (fase I) fu presto ampliato, verso la metà del III sec. a.C. (fase II), realizzando un terrazzamento, sostenuto da grandi vani a pianta quadrata, destinato alle manovre dei soldati e delle macchine da guerra; inoltre davanti alla porta di accesso all’abitato fu creato un ingresso “a imbuto”, simile ad altre coeve fortificazioni del Salento. Un ulteriore intervento di ampliamento risale al secolo successivo (fase III: metà del II sec. a.C.), quando l’accesso alla porta fu trasformato in un vero corridoio, stretto e lungo più di 20 metri, che era reso percorribile da un tavolato ligneo, una sorta di ponte che permetteva di superare il forte dislivello fra l’esterno e l’interno, dove si trovava il santuario. L’intervento, successivo alla conquista romana del Salento, si colloca in un momento di riorganizzazione militare in un’area di grande importanza strategica, proprio all’ingresso dell’Adriatico.

Pianta delle strutture in loc. Capanne
(da D’Andria 2019)
Ricostruzione della porta delle mura
Tra i muri di questa ultima fase sono stati trovati moltissimi reperti appartenenti al santuario di Atena. Il luogo di culto fu frequentato già dall’età del Ferro e poi ininterrottamente durante l’età arcaica fino a tutto il III sec. a.C., finché subì una violenta distruzione, forse a causa delle incursioni delle truppe di Annibale in questa zona nel 214 a.C. Proprio a seguito di questo evento molti degli oggetti consacrati del santuario furono seppelliti volontariamente e con un atto rituale. Fra questi il busto ed alcuni frammenti della statua di culto della dea, moltissimi vasi per le libagioni rituali e anche numerose armi, offerte tipiche nei santuari di Atena, divinità vergine guerriera.
Busto della dea Atena
Nello scavo sono state trovate anche alcune iscrizioni in lingua messapica, graffite o dipinte su vasi, oppure incise su blocchi di pietra pertinenti ad altari o a edifici. Il ritrovamento chiave per interpretare tutto il santuario è un bronzetto trovato nell’area sacra, alto solo 12 cm., che raffigura la dea Atena nello stesso schema iconografico del grande busto in pietra in cui è stata riconosciuta la statua di culto.
Bronzetto raffigurante Atena con elmo frigio

Approfondimenti

Informazioni aggiuntive
La piccola scultura, probabilmente prodotta a Taranto e datata al IV sec. a.C., porta un elmo “frigio”, il che consente di identificarla come Atena frigia, ossia troiana. L’immagine rivela la sua originalità anche per l’assenza dell’egida, il pettorale con la maschera di Medusa che invece caratterizza le immagini della Atena Attica. Questa scoperta ha permesso di collegare il contesto archeologico di Castro con l’antica tradizione, ripresa da Virgilio nel III libro dell’Eneide (vv. 530-531), della esistenza di un antico santuario di Atena lungo le coste del capo iapigio. Il culto della Atena troiana portato in luce in questo luogo risulta così in straordinaria coerenza con le tradizioni letterarie che collegano Castrum Minervae al primo sbarco in Italia dei profughi troiani. Il santuario di Atena ha restituito una straordinaria serie di grandi lastre in pietra tenera “leccese”, decorate da fregi vegetali, che dovevano in origine costituire forse la recinzione dell’area sacra.
Lastre in pietra tenera con fregi vegetali

La città è strettamente legata al racconto del mitico viaggio di Enea, cantato da Virgilio nell’Eneide, come punto di arrivo dell’eroe troiano sulle coste laziali.
Secondo la tradizione ripresa da Virgilio, infatti, appena sbarcato Enea fece il primo sacrificio, in un luogo presso il fiume Numico (oggi Fosso di Pratica: Numico_1), dove poi sarebbe sorto un santuario dedicato a Sol Indiges. Inseguendo una scrofa bianca gravida, l’eroe percorse una distanza di 24 stadi: qui la scrofa partorì trenta piccoli e il prodigio offrì ad Enea un segno della volontà degli dei di fermarsi e fondare una nuova città. L’eroe incontrò Latino, il re della locale popolazione degli Aborigeni, il quale, dopo aver consultato un oracolo, capì che i nuovi arrivati non dovevano essere considerati degli invasori, ma come uomini amici da accogliere. Enea sposò dunque la figlia di Latino, Lavinia, e fondò la città di Lavinium, celebrando la nascita di un nuovo popolo, nato dalla fusione tra Troiani e Aborigeni: il popolo dei Latini. Il mito racconta che Enea non morì, ma scomparve in modo prodigioso tra le acque del fiume Numico e da questo evento fu onorato come Padre Indiges: Il padre capostipite.

La piazza pubblica della città aveva una pianta rettangolare, ornata sui lati lunghi da portici, su cui si aprivano diversi edifici: uno di questi aveva forse la funzione di “Augusteo”, luogo dedicato al culto imperiale, come sembra indicare il ritrovamento di splendidi ritratti degli imperatori Augusto, Tiberio e Claudio. Sul lato corto occidentale si affacciavano un edificio elevato su un podio, forse la Curia (luogo di riunione del governo locale), e un tempio, risalente ad età repubblicana.

Il santuario, situato ad est della città antica, era dedicato alla dea Minerva, che a Lavinium è dea guerriera, ma anche protettrice dei matrimoni e delle nascite. È stato trovato un enorme scarico di materiale votivo databile tra la fine del VII e gli inizi del III sec. a.C., costituito soprattutto da numerose statue in terracotta raffiguranti soprattutto offerenti, sia maschili che femminili, alcune a grandezza naturale, che donano alla divinità melograni, conigli, colombe, uova e soprattutto giocattoli: le offerte simboleggiano l’abbandono della fanciullezza e il passaggio all’età adulta attraverso il matrimonio


Eccezionale il ritrovamento di una statua della dea, armata di spada, elmo e scudo e affiancata da un Tritone, essere metà umano e metà pesce: questo elemento permettere di riconoscere nella raffigurazione la Minerva Tritonia venerata anche in Grecia, in Beozia, e ricordata da Viirgilio nell’Eneide (XI, 483): “armipotens, praeses belli, Tritonia virgo” (O dea della guerra, potente nelle armi, o vergine tritonia…)

Il culto del santuario meridionale nasce in età arcaica ed era caratterizzato da libagioni. Nella fase finale il culto si trasforma invece verso la richiesta di salute e guarigione, documentato dalle numerose offerte di ex voto anatomici. Sono state trovate iscrizioni di dedica che ricordano
Castore e Polluce (i Dioscuri) e la dea Cerere. La molteplicità degli altari e delle dediche è stata interpretata come testimonianza del carattere federale del culto, quindi legato al popolo latino nel suo insieme: ogni altare potrebbe forse rappresentare una delle città latine aderenti alla Lega Latina, confederazione che riuniva molte città del Latium Vetus, alleatesi per contrastare il predominio di Roma.

Dionigi di Alicarnasso, vissuto sotto il principato di Augusto, afferma di aver visto in questo luogo, ancora al suo tempo, nel I sec. a.C., due altari, il tempio dove erano stati posti gli dèi Penati portati da Troia e la tomba di Enea circondata da alberi: «Si tratta di un piccolo tumulo, intorno al quale sono stati posti file regolari di alberi, che vale la pena di vedere» (Ant. Rom. I, 64, 5)
Alba

Lavinium fu considerata anche il luogo delle origini del popolo romano: all’immagine di Roma nel momento della sua espansione e della crescita del suo potere era utile costruire una discendenza mitica da Enea, figlio di Venere, onorato per le sue virtù, per la capacità di assecondare gli dèi; di conseguenza si affermò anche la tradizione per la quale Romolo, il fondatore di Roma, aveva le sue origini, dopo quattro secoli, dalla medesima stirpe di Enea.
Secondo questa tradizione Ascanio Iulo, il figlio di Enea, aveva fondato Alba Longa, città posta presso l’attuale Albano, dando l’avvio a una dinastia, che serviva per colmare i quattrocento anni che separano le vicende di Enea (XII sec. a.C.) dalla fondazione di Roma (VIII se. a.C.), quando, dalla stessa stirpe, nacquero i gemelli Romolo e Remo, secondo la tradizione allattati da una lupa. Questi erano dunque i nipoti del re di Alba Longa. La madre era Rea Silvia e il padre il dio Marte. Romolo uccise Remo e poi fondò Roma nel 753 a.C. Lavinium diventava così la città sacra dei Romani, dove avevano sede i “sacri princìpi del popolo romano”.

Il Borgo sorge su una altura occupata nell’antichità dall’acropoli di Lavinium. In età imperiale vi sorge una domus, testimoniata da pavimenti in mosaico in bianco e nero (Borgo_1). Una civitas Pratica è ricordata per la prima volta in un documento del 1061, mentre nell’epoca successiva si parla di un castrum che fu di proprietà del Monastero di San Paolo fino al 1442. La Tenuta di Pratica di Mare, comprendente anche il Borgo, allora definito “Castello” (Borgo_2), divenne poi proprietà della famiglia Massimi e in seguito fu acquistata nel 1617 dai Borghese. Il principe Giovan Battista, nel tentativo di valorizzare il territorio con l’agricoltura, ristrutturò il villaggio nella forma che ancora oggi rimane, caratteristica per la sua pianta ortogonale e la sua unitarietà. Dalla metà dell’Ottocento la malaria, che devastava la campagna romana, causò lo spopolamento del borgo, finché Camillo Borghese dal 1880 si impegnò nell’opera di ricolonizzazione, restaurando il palazzo e intervenendo con una importante opera di riassetto della tenuta, dove fu impiantata una singolare vigna a pianta esagonale. Il Borgo e la tenuta rappresentano una preziosa area monumentale e agricola ancora intatta all’interno della zona degradata di Pomezia e Torvaianica.

La decorazione, raffinatissima, si compone di cespi di acanto con tralci vegetali, spighe e grandi calici dalle foglie carnose, tra i quali volano uccellini e corrono leprotti, mentre Vittorie alate atterrano su rocce. Si tratta di un monumento eccezionale, estraneo al mondo indigeno della Messapia e derivato invece dalle sperimentazioni artistiche – in particolare della pittura – maturate in ambito greco adriatico, tra Macedonia ed Epiro, e soprattutto a Taranto. Questa città doveva avere qui un emporio, posto all’ingresso dell’Adriatico, in una posizione strategica per gli scambi commerciali tra il centro Europa e il Mediterraneo orientale: fu proprio Taranto ad introdurre a Castro il culto di Atena Iliaca, inviando anche scultori e architetti di grande livello per decorare gli edifici del santuario. La rilevanza del santuario emerge anche dal ritrovamento di elementi di decorazione architettonica sia in pietra sia in terracotta, che testimoniano l’esistenza fin dal VI sec. a.C. di edifici templari ispirati a modelli architettonici greci. Questo elemento distingue questo luogo di culto dal panorama del sacro conosciuto in Messapia, dove di solito le pratiche cultuali non prevedevano edifici destinati ad ospitare la statua della divinità, ma solo aree sacre semplicemente recintate, situate in contesti naturali, all’aperto, presso grotte o cavità. Bellezza del sito, con lo straordinario panorama sul canale di Otranto che si estende fino alle coste ed alle isole di Grecia e Albania, chiaramente visibili al di là del mare

Per saperne di più

F. D’Andria (a cura di), Castrum Minervae, Galatina 2009
F. D’Andria, “Scavi e scoperte a Castro (2014-2015)”, in Produzioni e committenze in Magna Graecia, Atti del 55° Convegno di Studi sulla Magna Graecia, Taranto 2015, Taranto 2019, pp. 799-807

IN BREVE

Castro costituisce il primo approdo in Italia dei troiani, descritto con enfasi nel libro III dell’Eneide, con dettagli sull’aspetto del porto e della costa. Gli scavi archeologici recenti hanno permesso di identificare a Castro un santuario di Athena Iliaca, da identificare con quello di cui parla Virgilio. Le straordinarie ricchezze artistiche, esposte nel locale Museo Archeologico, appaiono in stretta relazione con la colonia greca di Taranto.

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