Lavinium approfondimenti

LAVINIUM approfondimenti

Lavinium – Approfondimenti

trenta porcellini

Il numero di trenta cuccioli è variamente interpretato nelle fonti antiche. I porcellini indicavano gli anni che dovevano trascorrere prima che Ascanio fondasse Alba Longa, la città detta Alba (la bianca), proprio dal colore della scrofa (Catone, Origini); oppure trenta era il numero delle comunità – i popoli – che componevano il nomen latinum e che avevano il loro santuario comunitario, sacro a Giove, sul Monte Albano (Licofrone). Secondo Varrone a Lavinium era conservato in salamoia il corpo della scrofa e nella città era esposta una statua bronzea dell’animale con i suoi trenta piccoli: questa immagine figura sui medaglioni di età antonina che celebravano la fondazione di Lavinium.
Medaglione in bronzo di Antonino Pio: a sinistra Enea e Ascanio sbarcano dalla nave e trovano la scrofa gravida; a destra la città di Lavinium con le mura, il tempio rotondo dei Penati e la statua della scrofa con i suoi porcellini
(da Carandini, Cappelli 2000)

turno

Il conflitto con Turno, re della vicina e potente Ardea, che Virgilio pone al centro della seconda parte del suo poema, simboleggia la rivalità e la contrapposizione storica e molto antica tra Lavinium ed Ardea, ciascuna delle quali possedeva un Aphrodision, un santuario di Afrodite-Venere (e Venere era, si ricordi, la madre di Enea), dove si svolgevano delle feste comuni a tutti Latini. Sappiamo però da Strabone che, almeno al suo tempo (età augustea), l’Aphrodision di Lavinio era gestito dagli Ardeati attraverso schiavi sacri: questo sembra indicare una situazione di decadenza e abbandono di santuari lavinati in età tardo repubblicana, come è provato dai dati archeologici per quello dei Tredici altari. Doveva dunque esistere una leggenda ardeate di Enea, che duplicava quella di Lavinio anche in aspetti monumentali (perché corrispondenti ad aspetti rituali replicati). Una prova è rappresentata dai dei due altari scoperti a Castrum Inui, santuario costiero di Ardea, che nel loro differente orientamento astronomico sembrano corrispondere alla descrizione di Dionigi di Alicarnasso quando ricorda i due altari (bomoi) su cui Enea aveva sacrificato al suo sbarco; ciò che giustificherebbe l’ipotesi (Torelli) che il tempio minore di Castrum Inui fosse dedicato proprio ad Enea.
L. Giordano, Enea e Turno, 1634-1705
(Firenze, Galleria Corsini)

Mezenzio

E’ un personaggio etrusco che compare in tutte le fonti, fin da Catone, a proposito della festa latina dei Vinalia priora, che ricordava un episodio mitico antichissimo: il “tiranno” Mezenzio avrebbe imposto ai Latini come tributo la consegna del vino da loro prodotto ed Enea sarebbe riuscito a riprenderlo. Il racconto, ignorato da Virgilio,era molto noto e riaffiora spesso, anche se con alcune varianti, nella tradizione antiquaria. Una rara raffigurazione dell’evento sarebbe su una cista di Praeneste (340-330 a.C.).
Raffigurazione del trionfo di Enea per il riscatto del vino dei Latini da Mezenzio su una cista in bronzo da Praeneste
(Berlino, Antikenmuseum)
(da Bordenache Battaglia 1979)
Il suo ruolo è variamente raccontato: in Catone Mezenzio aiuta Turno, che viene sconfitto da Enea; dopo la morte di Enea viene poi ucciso da Ascanio. In Dionigi di Alicarnasso dopo la morte di Enea Mezenzio assedia i Latini, ma poi si arrende a ne diviene alleato. Per Virgilio invece, Mezenzio è un re in esilio ed Enea uccide sia lui che Turno. La storicità della figura di Mezenzio sembra indiziata da una iscrizione etrusca, incisa su un vaso da Cerveteri ora al Louvre, mi Laucies Mezenties (“io sono di Laucio Mezenzio”), che documenta questo rarissimo gentilizio dalla radice italica. Virgilio dunque, inserendo nell’Eneide la figura di Mezenzio, ucciso da Enea, attinge ad una realtà storica
Coppa di impasto da Cerveteri con iscrizione etrusca, 675-650 a.C. Parigi, Louvre
(Photo (C) RMN-Grand Palais (musée du Louvre) / Hervé Lewandowski)

il borgo di pratica di mare

Il Borgo sorge su una altura occupata nell’antichità dall’acropoli di Lavinium. In età imperiale vi sorgeva una domus, della quale si sono ritrovati i pavimenti in mosaico in bianco e nero. Una civitas Pratica è ricordata per la prima volta in un documento del 1061, mentre nell’epoca successiva si parla di un castrum che fu di proprietà del Monastero di San Paolo fino al 1442. La Tenuta di Pratica di Mare, comprendente anche il Borgo, allora definito “Castello”, divenne poi proprietà della famiglia Massimi e nel 1617 fu acquistata dai Borghese.
Il Castello di Pratica raffigurato nel Catasto Alessandrino, 1661
(Archivio di Stato di Roma)
Il principe Giovan Battista, nel tentativo di valorizzare il territorio con l’agricoltura, ristrutturò il villaggio nella forma che ancora oggi rimane, caratteristica per la sua pianta ortogonale e la sua unitarietà. La conformazione attuale del Borgo è riferibile alla ristrutturazione operata nel XVII sec. dall’architetto Rainaldi su disegni di Antonio da Sangallo il Giovane. Dalla metà dell’Ottocento la malaria, che devastava la campagna romana, causò lo spopolamento del borgo, finché Camillo Borghese dal 1880 si impegnò nell’opera di ricolonizzazione, restaurando il palazzo e intervenendo con una importante opera di riassetto della tenuta, dove fu impiantata una singolare vigna a pianta esagonale. Il Borgo e la tenuta rappresentano una preziosa area monumentale e agricola ancora intatta all’interno della zona degradata di Pomezia e Torvaianica.
Il Borgo di Pratica di Mare

Sol Indiges

Il santuario è situato sulla costa, in un’area in origine lagunare. La fase più antica risale alla fine del VI sec. a.C.; agli inizi del III sec. a.C. il tempio fu ricostruito ed il santuario fu circondato da un circuito murario con funzione difensiva che racchiudeva un’area quadrangolare; al complesso si accedeva da una porta fiancheggiata da due torri. Questo intervento trasformò l’antico luogo di culto in una sorta di fortezza che doveva proteggere l’approdo da possibili attacchi dal mare. I materiali rinvenuti sembrano indicare un culto di tipo salutare, forse del dio Esculapio. Il sito è stato identificato da alcuni archeologi con il luogo descritto da Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. I, 53-56), dove gli antichi ambientavano l’arrivo di Enea ed il primo dell’accampamento troiano

i xiii altari

Gli altari più antichi sono realizzati con un sistema “a cassa”, con un perimetro di blocchi di tufo riempito con terra e scheggioni, mentre i più recenti sono formati da blocchi affiancati. Tutti ripetono nella pianta lo schema di un tipo di altare ben noto in Grecia, con ante laterali sporgenti, mentre invece la struttura dell’alzato costituisce una creazione originale, composta da modanature complesse a sagome contrapposte di tipo arcaico, tipiche dell’ambiente laziale, ripetute fino ad età ellenistica.
Ara XI
L’ara XIII, la più antica

culto Comune

L’identificazione del santuario, per il quale è senza dubbio significativa la probabile pertinenza dell’heroon, è molto discussa. Alcuni studiosi hanno pensato al santuario dei Penati, il quale però era certamente all’interno della città; altri hanno proposto l’identificazione con l’Aphrodision, il santuario di Afrodite-Venere, la madre di Enea, ricordato da Strabone, ma questo era forse situato sulla costa, nel punto del presunto sbarco dei Troiani; altri ancora pensano che si tratti del santuario del Pater Indiges e che i singoli altari siano in qualche modo collegati con la deduzione delle colonie latine tra VI e IV sec. a.C., comunque prima dello scioglimento della lega latina nel 338.

alba longa

Secondo la tradizione Ascanio Iulo, il figlio di Enea, aveva fondato Alba Longa, città posta sui Colli Albani, dando l’avvio a una dinastia, la cui durata serviva a colmare gli anni che separano la guerra di Troia e quindi le vicende di Enea (XII sec. a.C.) dalla fondazione di Roma (VIII se. a.C.), quando, dalla stessa stirpe, nacquero i gemelli Romolo e Remo. Questi erano dunque i nipoti del re di Alba Longa; la madre era Rea Silvia e il padre il dio Marte. Romolo uccise Remo e poi fondò Roma (nel 753 a.C. secondo la cronologia varroniana). Lavinium diventava così la città sacra dei Romani, dove avevano sede i “sacri princìpi del popolo romano”.

Il Santuario di Minerva

Il santuario, situato ad est della città antica, era dedicato alla dea Minerva, che a Lavinium è dea guerriera, ma anche protettrice dei matrimoni e delle nascite. È stato rinvenuto un enorme scarico di materiale votivo databile tra l’epoca arcaica e gli inizi del III sec. a.C., costituito soprattutto da numerose statue in terracotta, testimonianza di un artigianato artistico di alta qualità: raffigurano offerenti, sia maschili che femminili, spesso a grandezza naturale, che donano alla divinità melograni, conigli, colombe, uova e giocattoli. Sono offerte che simboleggiano l’abbandono della fanciullezza e il passaggio all’età adulta, con particolare riferimento al matrimonio.

Statue in terracotta di offerenti dal santuario di Minerva

tomba a camera

Si tratta di una tomba a camera delimitata da muri in opera quadrata e in origine coperta da una falsa volta, formata da blocchi progressivamente aggettanti. La tecnica costruttiva costituisce quasi un unicum, anche se si può confrontare con alcuni ipogei di Tusculum di cronologia più tarda. Sopra l’urna più antica erano deposti due vasi di corredo, databili intorno al 570 a.C.: un’anfora “tirrenica” (di produzione greca, con decorazione a figure nere su più registri sovrapposti), ed una grande anfora di bucchero con una iscrizione graffita in etrusco: mini m[ulu]vanice mamar.ce : a.puniie: mi ha donato Mamarce Apunie. L’interesse di questo documento sta nel fatto che l’iscrizione è identica a quella incisa su un altro vaso dedicato nel santuario di Apollo a Veio: indica dunque probabili rapporti di amicizia, con relativo scambio di doni, fra la famiglia lavinate e la famiglia di Mamarce Apunie, e dunque di stretti legami fra la città latina e Veio.
Dediche di Mamarce Apunie su vasi di bucchero da Lavinum (a sinistra) e da Veio (a destra)
(particolare; da Michetti 2010)

Il foro

L’area forense ebbe una complessa serie di fasi di occupazione: la più antica è rappresentata da tombe dell’età del Bronzo; poi, nell’VIII e nel VII sec. a.C., lo spazio è occupato da grandi abitazioni. In seguito la piazza pubblica della città assume una pianta rettangolare, su cui si aprivano diverse costruzioni. Sul lato corto occidentale si trova un grande tempio su podio in opera incerta, forse a tre celle o una cella con due ali, con scalinata frontale e di fronte l’altare; accanto è un edificio – ritenuto la Curia della città (luogo di riunione del governo locale) – a pianta rettangolare, di cui si conserva solo il basamento in blocchi di tufo, datato al III sec. a.C.
Pianta del Foro di Lavinium. A: tempio; B: curia; C: cisterne (da Jaia 2017)